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I Vivarini, l’altra grande bottega nella Venezia del XV sec.

Il Quattrocento ha visto a Venezia la compresenza di due grandi botteghe di artisti a conduzione familiare. La prima è quella celeberrima dei Bellini. Avviata dal padre Jacopo Bellini, essa ebbe nel figlio Giovanni Bellini la figura di maggior spicco e talento. La seconda è quella dei Vivarini, la quale operò per circa un sessantennio tra XV e inizi del XVI sec. I Vivarini ai più ancora oggi forse dicono poco, eppure la loro fu una famiglia che ottenne grande successo per tutto il XV secolo, ricevendo importanti commissioni soprattutto da parte di ordini religiosi riformati, ma anche da parrocchie e laici.

In questo approfondimento cercheremo di ripercorrere le loro vicende artistiche, con in mente il ricordo della pregevole mostra visitata nel 2016 a Conegliano. Curata da Giandomenico Romanelli, la mostra di Palazzo Sarcinelli è stata la prima dedicata a tutti e tre i Vivarini. Essa ha avuto il merito sia di analizzare compiutamente l’evoluzione artistica interna alla bottega, sia di riconoscerne il ruolo centrale svolto nell’arte veneziana.

Una famiglia “allargata”

Quella dei Vivarini era una famiglia originaria di Padova, trasferitasi a Murano «nella seconda metà del Trecento per esercitarvi l’arte del vetro». Qui, nella parrocchia di Santo Stefano, viveva agli inizi del Quattrocento il mastro vetraio Michele di Antonio. Il vero capostipite della bottega, però, fu suo figlio maggiore Antonio (1418 circa / 1476-1484), il quale avviò la bottega attorno al 1440. Ad Antonio si assocerà un decennio più tardi, nel 1450, il fratello Bartolomeo (1430 circa / post 1491). I due collaborarono ad alcune opere e alla morte di Antonio sarà Bartolomeo ad assumere la conduzione della bottega. La terza figura è quella del figlio di Antonio, Alvise (1442/1453 / 1503).

Ai tre va affiancato, poi, il cognato di Antonio Vivarini, Giovanni d’Alemagna, il quale ne sposò una sorella. Come intuibile dal nome, Giovanni d’Alemagna era di origini tedesche e con il capostipite formò un inscindibile sodalizio, durato fino alla morte sopraggiunta nel 1450. Il legame artistico tra i due è stato tale che ancora oggi gli storici dell’arte si trovano in forte disaccordo sul ruolo svolto dal secondo. Giovanni d’Alemagna fu pittore alla pari di Antonio e a cui ascrivere un crescente numero di opere, a cominciare dal San Girolamo (1444) del Walters Art Museum di Baltimora, oppure semplice collaboratore?

Dal vetro alla pittura

Va precisato che i Vivarini, sebbene col tempo si fossero specializzati in opere pittoriche e polittici, non smisero di lavorare il vetro. Fu proprio la loro bottega, infatti, a realizzare la meravigliosa vetrata della basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Per quella che è la più famosa vetrata di Venezia, forse, tutti e tre i familiari operarono fianco a fianco. Probabilmente la commistione tra questa eredità “artigianale”, le conoscenze di altri materiali e ambiti artistici permise la felice realizzazione dei tre polittici eseguiti tra il 1443 e il 1444 per la cappella si San Tarasio, nella veneziana chiesa di San Zaccaria. Spettacolari “opere totali”, ricchissime di dettagli e significati teologici, esse ci dimostrano la lodevole capacità di collaborazione dei Vivarini con intagliatori e doratori del legno.

Esperti anche nell’uso della pastiglia, intagliatori e doratori all’epoca erano ritenuti ugualmente importanti e, talvolta, pagati persino di più dei pittori. Gli effetti luminosi raggiunti nei tre paliotti in questione, i cui soggetti principali sono la Madonna con il Bambino, la Resurrezione e Santa Sabina, sono frutto di questa perfetta simbiosi, figli ancora una volta dell’esperienze nella lavorazione del vetro di cui i Vivarini furono indubbiamente maestri.

Antonio Vivarini e Giovanni d'Alemagna, Trittico di San Moisè, pannello centrale, 1443-1444

Antonio Vivarini e Giovanni d'Alemagna, Trittico di San Moisè, pannello centrale, 1443-1444. Padova, chiesa di San Tommaso Becket, in deposito al Museo Diocesano.

Giovanni d'Alemagna (e Antonio Vivarini), Sant'Apollonia accecata, 1440-1445. Bergamo, Accademia Carrara. Sito d'arte antica e moderna.

Giovanni d'Alemagna (e Antonio Vivarini?), Sant'Apollonia accecata, 1440-1445. Bergamo, Accademia Carrara.

Una pittura “osservante”

Giandomenico Romanelli (2016) definisce la pittura dei Vivarini «schierata con l’osservanza». I due maggiori “campioni” di questo movimento religioso, spesso presenti nei dipinti dei Vivarini, furono Bernardino da Siena (canonizzato nel 1450, appena sei anni dopo la morte) e Giovanni da Capestrano. Proprio Capestrano fu il soggetto della prima opera certa (datata al 1459, firmata e oggi custodito al Louvre di Parigi) del solo Bartolomeo.

La definizione del Romanelli è senza dubbio condivisibile, tanto che, come constatato anche dallo stesso storico dell’arte, seguendo le committenze ottenute dai Vivarini nelle Marche, in Abbruzzo, Puglia e Regno di Napoli oltre che in Dalmazia, sembra di seguire i passi della diffusione delle varie comunità fedeli all’osservanza. Essa si proponeva di contrastare la dilagante corruzione e il decadimento morale, così da avviare un vasto rinnovamento della Chiesa. Il fatto che i Vivarini abbiano affrontato esclusivamente soggetti religiosi, tralasciando quelli storici, narrativi e “profani”, va letto, dunque, alla luce di questo legame con l’osservanza e, in generale, dei loro committenti e del periodo storico in cui vissero.

“[…] in quel territorio, quindi, si colloca anche la “militanza” artistica ed etica dei Vivarini, Nessuna favola pagana, nessuna, scena mitologica, nessuna pastorelleria arcadica, nessuno degli «dei falsi e bugiardi» di cui si compiacevano gli artisti e poeti alla moda fa capolino nelle loro opere.”

 

Giandomenico Romanelli, 2016

Oltre i pregiudizi, per una rivalutazione dell’arte dei Vivarini

Tale approccio permetterebbe di superare i giudizi negativi a loro riservati in passato, causa dello scarso interesse verso questi grandi artisti, soprattutto se confrontati ai Bellini. Mauro Lucco nel 1990, per esempio, si esprimeva così: «Di fronte […] alla carica di prestigio e modernità comunque riversata sull’azienda belliniana […] la bottega di Antonio Vivarini non aveva molto da opporre, per mancanza di flessibilità nel prodotto: mai essa era andata al di là dei consueti dipinti d’altare, per quanto lussuosi, mai aveva provato a misurarsi con compiti narrativi […] mai aveva provato la ritrattistica e persino l’affresco sembra essere stato abilità esclusiva di uno dei suoi componenti, Giovanni d’Alemagna […] È il quadro, insomma, di una bottega di stampo medievale, conservatrice nelle sue norme interne […] che inevitabilmente […] si ridusse sempre più nell’arco di qualche decennio, a mercati provinciali, rurali o decentrati, lungo le due sponde adriatiche.».

A nostro avviso tale impostazione è da ritenersi ormai superata. E proprio la citata mostra di Conegliano ha avuto l’indubbio pregio di seguire con convinzione una strada diversa. Non possiamo, perciò, che trovarci in sintonia con la riflessione fatta dalla Schmidt e ripresa da Marina Massa (2000). La Schmidt scrive: «per loro il costante riferimento alla tradizione non implica un’arretratezza culturale, né una mancata partecipazione alle più aggiornate correnti artistiche del tempo, bensì l’uso di un lessico in cui la componente innovativa viene riassorbita entro gli schemi compositivi e stilistici ormai consolidatisi nella tradizione, ma soprattutto nel gusto della committenza».

Un capolavoro per la Scuola Grande della Carità

Una dimostrazione di ciò è il magnifico Trittico dei Padri della Chiesa, eseguito nel 1446 per la Scuola Grande della Carità, dove oggi vi sono le Gallerie dell’Accademia di Venezia (foto in basso). Si tratta di un capolavoro assoluto per virtuosismo scenico e innovazione.

Antonio Vivarini e Giovanni d'Alemagna, Trittico dei Padri della Chiesa. Venezia, Gallerie dell'Accademia.
Antonio Vivarini e Giovanni d'Alemagna, Trittico dei Padri della Chiesa, 1446. Venezia, Gallerie dell'Accademia.

La sacra rappresentazione, difatti, non è suddivisa nei canonici scomparti del polittico medievale, ma si svolge in modo unitario all’interno di un’architettura molto elaborata. Quest’impostazione Antonio e Giovanni d’Alemagna non l’adotteranno più in seguito. Eppure, essa sarà fondamentale per l’evoluzione artistica di Giovanni Bellini e l’iconografia delle sacre conversazioni nei decenni a seguire. Inoltre, non dobbiamo sottovalutare il fatto che, già Antonio avesse compiuto il passaggio dall’arte gotica dei suoi maestri a quella del primo Rinascimento, attenta alla prospettiva e pienamente occidentale nei suoi mezzi espressivi.

Trittico dei Padri della Chiesa, 1446, dett. con i santi Gerolamo e Gregorio.
Trittico dei Padri della Chiesa, 1446, dett. con i santi Gerolamo e Gregorio. Foto: José Luiz, Wikipedia.

Tre differenti sensibilità artistiche

Antonio Vivarini

Analizzando brevemente una ad una le tre figure che costituirono la bottega dei Vivarini, si scopre quanto Antonio fosse influenzato da Donatello. Il celebre scultore visse a Padova un decennio, e qui lasciò opere di straordinaria importanza. Non solo per la scultura veneta del Quattrocento, ma anche per la pittura. Oltre che a Donatello, Antonio guardò alla bottega di Squarcione e al Mantegna, il quale fu a sua volta un valido scultore, come ricordato già nel Cinquecento da Vasari, Giovanni Battista Spagnuoli e Bartolomeo Scardeone. Infine, ebbero per lui un ruolo importante anche le opere eseguite a Venezia da Paolo Uccello, Filippo Lippi e Andrea del Castagno.

Bartolomeo Vivarini

Passando a Bartolomeo, egli fu dei tre colui col quale la bottega raggiunse la definitiva decodificazione delle proprie peculiarità artistiche. In altre parole, con Bartolomeo l’arte dei Vivarini definisce una chiara e riconoscibile identità artistica. Egli condivise con il fratello l’apprezzamento per la lezione mantegnesca, con riferimento in particolare all’aspetto scultoreo.

La declinazione che ne dà Bartolomeo, però, appare più “spigolosa e aguzza”, secondo una maniera che a tratti si avvicina più a Squarcione. Esempi chiari in tal senso sono la fondamentale Madonna col Bambino e santi di Napoli (1465, Museo di Capodimonte, immagine di copertina), caposaldo, assieme alla Madonna in trono con il Bambino e santi di Bari (1476, basilica di San Nicola), del passaggio definitivo che all’epoca si stava compiendo verso la pala d’altare unificata. Senza dimenticare il Polittico di Torre Boldone (1491, Bergamo, Accademia Carrara)). Qui i corpi bloccati in rigide pose di san Sebastiano e del Battista, sembrano farsi essi stessi rocciosi come il paesaggio.

“Bartolomeo fu il quarto pittore dei Vivarini, ed il migliore per avventura di tutti loro, poiché con gli esempi delle cose vedute, e per esser egli lungamente vissuto, (tutto che non sapesse dipartirsi dall’usata maniera) fece alcuna buona pittura”


Carlo Ridolfi, 1648

Bartolomeo Vivarini, Trittico di Torre Boldone
Bartolomeo Vivarini, Trittico di Torre Boldone, 1491. Bergamo, Accademia Carrara.

Alvise Vivarini

Alvise, invece, fu certamente l’artista più innovativo e “sperimentatore” come lo definisce Giandomenico Romanelli. Ciò risulta chiaro dal Cristo risorto (1497-1498) della chiesa di San Giovanni in Bragarora a Venezia, dipinto di sapore peruginesco in cui irrompe prepotentemente il “tempo narrativo”, e dal San Gerolamo penitente (1475, Bergamo, Accademia Carrara).

La sua opera più pregevole e sorprendente senza ombra di dubbio è la Madonna con il Bambino e santi di Amiens, ammirata proprio a Conegliano. Eseguita nel 1500 essa è stata magistralmente descritta da Romanelli, il quale pone l’accento sulla curiosa impostazione circolare dei santi, ciascuno dei quali si rapporta al Bambino in modo personalissimo, arrivando a parlare di “sacro dejeuner sur l’herbe”. Al di là del meraviglioso paesaggio sullo sfondo, raffigurato con una propria cifra stilistica e simbolica, non si può, in effetti, non rimanere emozionati nel vedere san Pietro porgere a Gesù bambino le chiavi, suo attributo per eccellenza, con fare giocoso, tenero e umanissimo.

Alvise Vivarini. Ritratto, pittura del Quattrocento.
Alvise Vivarini, Ritratto d'uomo, 1497, olio su tavola. Londra, National Gallery.
Le influenze artistiche di Antonello da Messina e Giovanni Bellini

I maggiori punti di riferimento di Alvise furono Antonello da Messina e Giovanni Bellini. Il primo fu di passaggio a Venezia nell’ottavo decennio del Quattrocento, portando con sé anche le novità dell’arte fiamminga. L’influenza di Antonello da Messina su Alvise si scorge nel bellissimo Ritratto d’uomo della National Gallery di Londra datato al 1497. La presenza del parapetto, la cura nel riportare ogni singolo dettaglio del viso, persino rughe e pappagorgia dell’effigiato, senza alcun timore reverenziale, sono tutti elementi ripresi dal grande artista messinese.

Proseguendo nell’analisi, se nella tela di Amiens, Alvise interpreta il paesaggio in modo differente da Bellini, dimostrando di essere figura attenta, aggiornata ma assolutamente autonoma, la Madonna col Bambino della Querini Stampalia al contrario è una citazione chiara e diretta del grande maestro. Le Madonne di Giovanni Bellini alla fine del Quattrocento “invasero” il mercato veneziano, e non solo, secondo un’infinità di declinazioni iconografiche. Il dipinto della Querini Stampalia dunque, non può essere compreso se non lo si analizza, come proposto da Enrico Maria dal Pozzolo, accanto alla Madonna col Bambino (1475 circa, Venezia, Gallerie dell’Accademia) di Giovanni Bellini. Quest’ultima è di certo una delle sue più riuscite e pregevoli raffigurazioni di questa iconografia legata soprattutto alla devozione privata.

In definitiva, Alvise fu lo “sperimentatore” (Romanelli 2016) dei tre, colui che si staccò maggiormente dai canoni ormai fissati all’interno della bottega.  Canoni che per il figlio di Antonio erano oramai in buona parte superati alle soglie del Cinquecento.

Alvise Vivarini, Sacra conversazione. Amiens, Musée de Picardie.
Alvise Vivarini, Sacra conversazione, 1500, olio su tavola, 145 x 100 cm. Amiens, Musée de Picardie.

I Vivarini e il collezionismo di Tommaso degli Obizzi

A questo punto va affrontato brevemente un ulteriore ambito di ricerca, che svela quanto siano stati realmente tenuti in considerazione in passato i Vivarini: il collezionismo. Alcune delle opere più importanti di Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna si trovano al Kunsthistorisches Museum di Vienna, o alla Národní Galerie di Praga. Ciò è dovuto alle donazioni, poiché privo di eredi, fatte dal grande collezionista e loro ammiratore Tommaso degli Obizzi (Padova 1750-1830) a favore del duca di Modena Ercole III d’Este. Da cui passarono al ramo degli Asburgo-Este e, a fine Ottocento, in Austria. Tra queste ricordiamo l’Altare di San Girolamo (1441), il Polittico della Natività (1447), la Crocifissione (1447 circa) e soprattutto la bellissima Santa Chiara d’Assisi (1467 circa). Testimonianza di come nel Settecento il nome dei Vivarini fosse apprezzato e conosciuto.

Un “fiorito e rassicurante splendore” tra Gotico e Rinascimento

La produzione pittorica dei Vivarini è davvero vasta e ricca di opere importanti, tra le quali meritano una citazione almeno: il Polittico di Parenzo (1440, museo della basilica eufrasiana), prima opera firmata e datata di Antonio; il Polittico di Scanzo (1488, Bergamo, Accademia Carrara) e il Sant’Agostino vescovo tra i santi Domenico e Lorenzo (1473, Venezia, Santi Giovanni e Paolo) di Bartolomeo; la Madonna in trono con il Bambino (1483, Barletta, Sant’Andrea) di Alvise, in cui si nota già quell’addolcimento dei volti sulla scia di Antonello da Messina.

L’arte dei Vivarini è fondamentale per comprendere il passaggio dal Gotico al Rinascimento in laguna; la situazione politica, religiosa e culturale dell’epoca; l’influenza degli artisti toscani giunti in Veneto; il funzionamento di una grande bottega a conduzione famigliare nel XV secolo. Inoltre Antonio, Bartolomeo e Alvise, a cui va affiancato a pieno titolo Giovanni d’Alemagna, ci hanno lasciato dei capolavori assoluti. Opere meravigliose che negli esempi meglio riusciti sanno unire magistralmente più forme d’arte insieme, in strepitose raffigurazioni sacre dal grande impatto scenico. In conclusione, ci sentiamo di citare un bellissimo passo di Enrico Maria dal Pozzolo (2010) in riferimento all’Annunciazione tra i santi Agostino e Filippo Benizzi (1452, Gazzada, Fondazione Cagnola): «sembra di stare sotto le guglie e i pinnacoli della Porta della Carta, al riparo del suo fiorito e rassicurante splendore».

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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M. LUCCO, Venezia; in AA. VV, La pittura nel Vento. Il Quattrocento, vol. II, Milano 1990, pp. 406-407.

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P. PRIBYL, Crocifissione; in A. TARTUFERI & G. TORMEN (a cura di), La fortuna dei primitivi. Tesori d’arte dalle collezioni italiane fra Sette e Ottocento; catalogo della mostra (Firenze, Galleria dell’Accademia, 24 giugno – 8 dicembre 2014), Firenze – Milano 2014, scheda n° 58, pp. 348-350.

C. RIDOLFI, Le meraviglie dell’arte. Ovvero le Vite degli illustri Pittori Veneti e dello Stato descritte dal cav. Carlo Ridolfi; edizione seconda, Padova 1835-1837, ristampa anastatica a cura della Elibron Classics, II voll., Germany 2006, vol. 1, pp. 52-56.

G. ROMANELLI (a cura di), I Vivarini. Lo splendore della pittura tra Gotico e Rinascimento; catalogo della mostra (Conegliano, palazzo Sarcinelli, 20 febbraio – 5 giugno 2016), Venezia 2016.

G. ROMANELLI, I Vivarini; Art & Dossier n° 330, Firenze – Milano 2016.

C. SCHMIDT ARCANGELI, Santa Chiara d’Assisi; in A. TARTUFERI & G. TORMEN (a cura di), La fortuna dei primitivi. Tesori d’arte dalle collezioni italiane fra Sette e Ottocento; catalogo della mostra (Firenze, Galleria dell’Accademia, 24 giugno – 8 dicembre 2014), Firenze – Milano 2014, scheda n° 59, pp. 351-353.

V. SGARBI (a cura di), La scultura al tempo di Andrea Mantegna tra classicismo e naturalismo; catalogo della mostra (Mantova, Castello di San Giorgio, 16 settembre 2006 – 14 gennaio 2007), Milano 2006.

A. TARTUFERI & G. TORMEN (a cura di), La fortuna dei primitivi. Tesori d’arte dalle collezioni italiane fra Sette e Ottocento; catalogo della mostra (Firenze, Galleria dell’Accademia, 24 giugno – 8 dicembre 2014), Firenze – Milano 2014, pp. 329-333.

Immagini: raccolta dell’autore, dove non diversamente indicato.

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